Finalmente si è aperta la tanto attesa mostra della Pop Art in SL.
Il vostro cronista ne registra l'inaugurazione, affollata di molti avatar incuriositi ed attenti alle esaurienti spiegazioni della visita guidata (con traduzione simultanea in inglese), ma non entra nella descrizione dettagliata delle opere, che è possibile trovare nel ricco catalogo e nelle installazioni interattive lungo il percorso espositivo, né entra nella valutazione dei principi ispiratori della PA in genere e della mostra in particolare, tutte cose già ben trattate nell'invito e nella presentazione inviati in notice. Egli si limita piuttosto a sottolinearne un aspetto singolare: la Pop Art è idealmente legata agli ambienti virtuali proprio perché questi ultimi sono resi possibili dallla tecnologia digitale.
L'analogico è approssimazione (non necessariamente con l'accezione negativa del termine), descrizione, sfumatura, gradualità, impressione, mentre il digitale è certezza, indicazione, informazione, dettaglio, espressione. Differenze non solo formali e "tecniche", ma strutturali se non addiritura filosofiche; non solo percezione, quindi, ma concezione e sostanza.
Il digitale, quindi, ben si adatta alla visione della realtà propria della Pop Art, che per definizione non ammette esitazioni o nuances estetiche o psicologiche: l'opera d'arte è tale in quanto la sua unicità, perfettamente delineata nella sua mappatura genica, nel nostro caso riconducibile ad un algoritmo di pixel, si spinge paradossalmente fino alla sua completa riproducibilità.
Questo meccanismo apparentemente cervellotico diventa metafora dello straniamento quotidiano nell'epoca massmediatica, nel momento in cui i fruitori si identificano con gli artisti e quindi con le loro opere e quindi con i mezzi di comunicazione che le riportano, moltiplicandone all'infinito segni e significati senza per questo sminuirne la valenza estetica, allo stesso modo in cui ogni frammento di specchio, al pari degli altri, riflette tutta la realtà.
Nel caso di Second Life, questa identificazione si realizza in pieno: gli osservatori sono fatti della stessa "materia" delle opere, entrano in esse, interagiscono, giocano divertendosi come in un ammiccante Luna Park del Bello e del Vero, e nel contempo esorcizzando il Falso e l'Ovvio. E, paradosso estremo ma illuminante, le opere in 3D della mostra trovano la loro ideale collocazione proprio in un ambiente bidimensionale, quasi a significare l'inutilità di ogni sforzo teso ad "approfondire" i connotati simbolici della PA,che epidermicamente vive e galleggia su se stessa come un gioco non-gioco, seriamente ludico e lucidamente ironico.
Pino Viti
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